A fine del mese una Giuditta e Oloferne attribuito a Caravaggio andrà all’asta, ma c’è chi ne contesta l’attribuzione. L’asta è prevista per oggi, 27 giugno, alla maison Marc Labarbe a Tolose, con una valutazione di circa 150 milioni di dollari.
Il dipinto è stato ritrovato in un’antica abitazione della città francese, nascosto dentro un’intercapedine, durante i lavori per una perdita d’acqua. L’opera, che sarebbe stata dipinta dal Caravaggi durante il suo primo soggiorno napoletano mostra l’eroina biblica Giuditta che, assistita dalla vecchia serva Abra, decapita il condottiero assiro Oloferne.
L’esperto parigino e mercante d’arte Eric Turquin, che ha studiato attentamente il dipinto, presentato per la prima volta a Parigi nel 2016, si dice convinto che si tratti di un’opera del Merisi e motiva le sue sicurezze menzionando la pennellate, i dettagli e lo studio della luce. Secondo Turquin ci sono anche alcuni documenti ne attestano l’autenticità. Il dipinto sarebbe l’originale che indusse Louis Finson, pittore fiammingo molto vicino a Caravaggio, ad eseguire una copia conservata a palazzo Zevallos, a Napoli.
Se esperti come Nicola Spinosi, Keith Christiansen e John Gash condividono l’analisi di Turquin, altri storici dell’arte tra cui Gianni Papi, Mina Gregori, Valeria Merlini, Stefania Macioce non la condividono. Perplesso si dichiara Philippe Daverio, mentre altri, come Vittorio Sgarbi, sono possibilisti.
Un giudizio negativo sull’autenticità dell’opera ci viene anche da Guglielmo Scoglio, studioso di Monforte San Giorgio, centro del messinese, che ha mostrato in un suo recente libro su Stefano Tuccio, noto gesuita monfortese del XVI secolo, che Caravaggio, per dipingere “Giuditta e Oloferne”, conservato a Roma nella Galleria Nazionale di Arte antica di Palazzo Barberini, si sia documentato non sulla Bibbia bensì sul dramma “Giuditta”. Questa tragedia fu scritta da Tuccio durante il suo periodo di permanenza a Messina, fu dedicata ai messinesi, messa in scena per la prima volta nella Città dello Stretto nel 1564 per tre sere consecutive. Fu poi replicata nel 1565 e poi a Palermo nel 1567, poi ancora a Messina nel 1579 a spese del Senato della città.
Scoglio ha anche individuato chi ha fornito il testo di Tuccio a Caravaggio. Si tratta del letterato suo amico Gian Vittorio Rossi più noto come Giano Nicio Eritreo. La fedeltà di Caravaggio alla tragedia di Tuccio è evidente se si pensa che nel dipinto conservato a Palazzo Barberini per la prima volta è realisticamente rappresentato l’episodio dello sgozzamento tanto che si vede il sangue che sgorga copioso dal collo dell’assiro. In tutte le opere d’arte precedenti invece veniva rappresentata la testa mozzata di Oloferne accanto a Giuditta. Inoltre per la prima volta in un dipinto la serva Abra è presente all’esecuzione, come nel testo di Tuccio, in cui è lei che toglie la spada dal fodero. Nella Bibbia invece al momento della decapitazione sta fuori dalla tenda.
Altro dettaglio significativo è che mentre nella Bibbia sono stati necessari due colpi di scimitarra per troncare il capo di Oloferne, in Tuccio ne basta uno solo. Questo si riscontra anche nel Caravaggio dove possiamo notare che la scimitarra ha tagliato pressoché tutto il collo, tanto che, per essere staccato, è sufficiente che Giuditta tiri con forza i capelli verso di sé con la mano sinistra.
Nel dipinto che sarà messo all’asta l’autore segue esattamente queste indicazioni ma non tiene conto di alcuni altri particolari essenziali tanto da tradire l’immagine della Giuditta tucciana. Questa è simbolo di Maria, salvatrice dell’umanità ed esempio di purezza come è evidente nel dipinto di Palazzo Barberini, in cui anche il colore bianco della camicetta richiama la castità. La Giuditta di Caravaggio esegue la decapitazione del malvagio Oloferne con molta riluttanza come per ubbidire ad un compito che le è stato imposto: il suo volto è contratto in un’espressione che manifesta il suo orrore, la sua repulsione alla vista del sangue che dall’arteria dell’assiro fuoriesce violentemente in tre grossi rigagnoli e macchia di rosso lenzuolo e cuscino entrambi bianchi.
Questo atteggiamento si collega a quanto indica Tuccio nel suo dramma in cui Giuditta accetta con difficoltà il compito che le viene affidato e chiude l’incontro con l’angelo Raffaele con queste parole: “Giacché questo si è decretato, andiamo ovunque siamo chiamati”. Una risposta analoga a quella di Maria, madre di Gesù, all’angelo annunziante.
Un altro dettaglio fondamentale che non trova riscontro nel dipinto di Tolosa è che mentre nella Bibbia troviamo scritto che Giuditta “si rese molto affascinante agli sguardi di qualunque uomo l’avesse vista”, nel testo di Tuccio le disposizioni indirizzate ad Abra terminano con queste parole: ”il petto si copra di velo sottile”. Caravaggio ha recepito questa espressione raffigurando Giuditta, oltre che ben pettinata e adornata di orecchini preziosi, con una seducente camicetta. Claudio Strinati parla di “provocanti trasparenze sul seno” mentre Eberhard König individua una “giovane donna bionda ben vestita, con il petto rigoglioso che appare visibile sotto la camicetta bianca”. Di tutto ciò non troviamo riscontro nel dipinto di Tolosa dove non viene sufficientemente sottolineata neanche la bellezza di Giuditta, qualità questa che simboleggia valori morali e virtù.
Se questo dipinto fosse opera di Caravaggio non sarebbero stati certamente trascurati tanti importanti dettagli simbolici. Pertanto da Monforte San Giorgio giunge un giudizio fortemente negativo sull’autenticità dell’opera che sarà messa all’asta a Tolosa il 27 giugno 2019.