Palermo: in scena Liolà con Mario Incudine e Moni Ovadia
Liolà di Pirandello diventa una commedia musicale nell’adattamento di Mario Incudine, Moni Ovadia e Paride Benassai. Debutto in prima assoluta venerdì 11 maggio alle 21.00 al teatro Biondo di Palermo.
Lo spettacolo, diretto a quattro mani da Ovadia e Incudine, che ha scritto anche le musiche e disegnato le scene, è prodotto dal teatro Biondo con la collaborazione del teatro Garibaldi di Enna e del teatro Regina Margherita di Caltanissetta.
Nel ruolo di Liolà, Incudine sarà in scena insieme a Moni Ovadia, che interpreta Zio Simone, Paride Benassai nei panni di Pauluzzu ’u fuoddi, Rori Quattrocchi nel ruolo di Zà Ninfa, Stefania Blandeburgo nel ruolo di Zà Croce, Aurora Cimino, Graziana Lo Brutto, Chiara Seminara, Sabrina Sproviero, i musicisti Antonio Vasta (fisarmonica), Antonio Putzu (fiati), Manfredi Tumminello (corde) e il coro di contadini e popolani interpretato dagli attori e danzatori del Teatro Ditirammu diretto da Elisa Parrinello: Noa Blasini, Chiara Bologna, Elvira Maria Camarrone, Valentina Corrao, Francesco Di Giuseppe, Bruno Carlo Di Vita, Mattia Carlo Di Vita, Noa Flandina, Alessandra Ponente, Alessia Quattrocchi, Rita Tolomeo, Pietro Tutone, Fabio Ustica.
I costumi dello spettacolo sono di Elisa Savi, le luci di Franco Buzzanca, i movimenti scenici e le coreografie di Dario La Ferla, la direzione musicale è di Antonio Vasta.
Repliche fino al 20 maggio.
Scritta in dialetto agrigentino e rappresentata per la prima volta al Teatro Argentina di Roma nel 1916 dalla compagnia di Angelo Musco, Liolà – “Commedia campestre in tre atti” secondo la definizione dell’autore – è ispirata a un episodio del quarto capitolo del romanzo Il fu Mattia Pascal. Protagonista è un simpatico contadino che si aggira nelle campagne agrigentine seducendo “ragazzotte di fuorivia”, dei cui figli si fa carico affidandoli alla propria madre.
La commedia si ingarbuglia quando Liolà ingravida Tuzza, nipote del ricco Zio Simone, che vorrebbe far credere di essere il padre del bambino per nascondere la propria sterilità.
Nelle mani di Ovadia, Incudine e Benassai, il testo di Pirandello diventa uno spettacolo corale, una vera e propria commedia musicale dove il ritmo, le musiche le danze e i giochi linguistici disegnano un grande affresco popolare.
Secondo Ovadia e Incudine Liolà è “un’opera a tutto tondo, che mescola prosa e musica in una grande favola vicina al mondo dell’opera popolare. Il protagonista rappresenta la vita, il canto, la poesia, il futile ancorché necessario piacere. Lui è l’amore e la morte, il sole e la luna, il canto e il silenzio, il sangue e la ferita, incarna in sé il Don Giovanni di Mozart e il Dioniso della mitologia, governato dall’aria che fa ruotare il suo cervello come un firrialoru, un mulinello. È un uccello di volo, che teme la gabbia e volteggia da un amore all’altro senza mai posarsi troppo a lungo sopra un singolo ramo. Volteggia e canta continuamente, mirando tutti dall’alto, abbracciando, baciando, amoreggiando, sì, ma scansando scaltro le trappole della restrizione”.
A fare da contraltare alla grande vitalità di Liolà è Zio Simone, dai toni grotteschi e tragicomici, personaggio cinico e senza scrupoli, attorno al quale ruota tutta la vicenda dei figli delle due protagoniste Tuzza e Mita: “Zio Simone – spiegano ancora Ovadia e Incudine – tratteggia la figura dell’uomo pavido e viscido che, pur di avere un figlio, un erede a cui lasciare la roba, è disposto a qualsiasi compromesso. I personaggi che colorano la storia, ognuno con un timbro diverso e unico a sottolinearne il carattere, sono come gli strumenti preziosi e insostituibili di un’orchestra sinfonica, solfeggiano la parola ed hanno tutti una precisa collocazione nella fonosfera dominata dall’azione corale”.
Personaggio di invenzione, rispetto al testo pirandelliano, è invece Paoluzzu, il pazzo del paese: “È lui che, nella sua pirandelliana follia, si dimostra molto più lucido di tutti gli altri. È lui a muovere la vicenda, a scandirne i tempi, burattinaio che ben padroneggia le azioni dei pupi e deus ex machina che risolve infine la tragedia di questo dramma satiresco”.
“La storia di Liolà, conosciutissima ovunque, parte da un capitolo del famoso romanzo Il fu Mattia Pascal per poi diventare una commedia con canzoni. La vicenda si ispira anche ad un’altra novella di Pirandello, La mosca, ed è proprio da frammenti di queste due opere che parte la drammaturgia di questa nuova messa in scena. Un’opera a tutto tondo, che mescola prosa e musica in una grande favola più vicina al mondo dell’opera popolare. Parte e si sviluppa da queste pagine, dalla letteratura, dal romanzo e dai saggi che ne scrissero Gramsci e Pasolini.
Liolà rappresenta la vita, il canto, la poesia, il futile ancorché necessario piacere. Lui è l’amore e la morte, il sole e la luna, il canto e il silenzio, il sangue e la ferita, incarna in sé il Don Giovanni di Mozart e il Dioniso della mitologia, governato dall’aria che fa ruotare il suo cervello come un firrialoru, un mulinello. È un uccello di volo, che teme la gabbia e volteggia da un amore all’altro senza mai posarsi troppo a lungo sopra un singolo ramo. Volteggia e canta continuamente, mirando tutti dall’alto, abbracciando, baciando, amoreggiando, sì, ma scansando scaltro le trappole della restrizione.
Zio Simone, suo contraltare dai toni grotteschi e tragicomici, personaggio cinico e senza scrupoli, attorno al quale ruota tutta la vicenda dei figli delle due protagoniste, Tuzza e Mita, tratteggia invece la figura dell’uomo pavido e viscido che pur di avere un figlio, un erede a cui lasciare la roba, è disposto a qualsiasi compromesso. I personaggi che colorano la storia, ognuno con un timbro diverso e unico a sottolinearne il carattere, sono come gli strumenti preziosi e insostituibili di un’orchestra sinfonica, solfeggiano la parola ed hanno tutti una precisa collocazione nella fonosfera dominata dall’azione corale.
Il gesto diventa coreografia e movimento, tutto si trasfigura in un non luogo e non tempo in cui ci si muove dentro costumi bidimensionali, a volere sottolineare la mancanza di profondità d’animo dei personaggi. Testardi, attaccati alle ricchezze materiali, relegati in una grettezza che li rende meschini, aridi, privi di spessore. Sono delle maschere che si accapigliano per primeggiare l’una sull’altra.
I figli, tanto nominati e sospirati nel testo, non interessano davvero a nessuno in questa vicenda, sono solo un pretesto per raggiungere scopi poco nobili: mettere le mani sulla roba, portare a segno una vendetta, dare continuazione al proprio nome. L’unica chioccia si rivelerà la zia Ninfa, madre di Liolà, che accoglie bonariamente i frutti di “fora via” delle varie svolazzate del figlio e alla quale è affidato il senso più profondo della maternità.
E poi c’è Paoluzzu, il pazzo del paese, un personaggio di nostra invenzione. È lui che nella sua pirandelliana follia si dimostra molto più lucido di tutti gli altri. È lui a muovere la vicenda, a scandirne i tempi, burattinaio che ben padroneggia le azioni dei pupi e deus ex machina che risolve infine la tragedia di questo dramma satiresco”. Così in una nota di regia Incudine e Ovadia