Rischia di venire abbattuto il tribunale di Gela, costruito abusivamente. Una vicenda paradossale iniziata ai tempi della giunta Crocetta e finita lunedì scorso con l’ordinanza shock del consiglio di giustizia amministrativa che apre perfino le porte ad una possibile demolizione dell’edificio inaugurato cinque anni fa.
Nel 2007 la giunta comunale guidata da Crocetta aveva individuato un’area accanto alla raffineria dell’Eni di proprietà delle famiglie Calafiore e Sciascia. Il comune aveva così avviato un esproprio, riconoscendo un indennizzo che da subito stato contestato dai privati cittadini che si sono opposti facendo ricorso al tar. Ricorso vinto in primo e secondo grado perché, si scopre, le procedure di esproprio fatte dall’amministrazione sarebbero state illegittime.
La vicenda continua. Il consiglio di giustizia amministrativa stabilisce che i privati devono avere un risarcimento e per questo nomina un commissario che, a sua volta, stima in 7 milioni di euro la cifra del risarcimento: 3,5 milioni per il valore del terreno e altrettanti per il danno subito da un’occupazione “illegittima”. I privati, però, non demordono e chiedono indietro il terreno.
Lunedì scorso i giudici amministrativi da un lato invitano a ridurre la quantificazione del risarcimento e dall’altro indicano tre strade: un accordo (che appare però impossibile), un nuovo esproprio che avrebbe almeno un costo di 3 milioni di euro (soldi che il comune non ha). Oppure, scrivono i giudici “il commissario ad acta dovrebbe porre in essere l’attività esecutiva materiale, ossia la demolizione del palazzo di giustizia, in danno delle amministrazioni intimate ma con onere di anticipazione delle spese a carico dei ricorrenti”.
Comunque andrà a finire la vicenda, è sicuramente paradossale perché proprio il palazzo di giustizia, che dovrebbe essere sede di legalità, è stato costruito su un’area occupata abusivamente. Insomma, il paradosso dei paradossi. Un pasticciaccio che rischia di mettere in ginocchio le casse comunali e il ministero.
Maria Chiara Ferraù