Venerdì 9 luglio prende il via la 40^ edizione delle Orestiadi di Gibellina: sarà la rilettura dell’Agamènnuni dall’Orestea di Emilio Isgrò, ad opera diVincenzo Pirrotta con la partecipazione musicale di Alfio Antico (ore 21.00 – Baglio di Stefano)–in esclusiva per le Orestiadi 40 – ad aprire questa edizione straordinaria tra teatro, arte e visioni. Sarà un viaggio nella storia del Festival che ebbe inizio nel 1982, grazie al teatro di Emilio Isgrò, che diede l’avvio ad un percorso unico di teatro contemporaneo nella città di Gibellina.
Sabato 10 luglio (ore 19,00 al Baglio Di Stefano),avrà luogo l’incontro“Il teatro di EmiloIsgro”acura di Martina Treu, ricercatrice di Lingua e Letteratura Greca presso l’Università IULM, studiosa di teatro antico, in particolare dei rapporti tra mito, drammaturgia, riscrittura e messinscena contemporanea – curatrice della pubblicazione L’Orestea di Gibellina e altri testi per il Teatro di Emilio Isgrò (collana “Fuoriformato” de Le Lettere, diretta da Andrea Cortellessa), opera che raccogliere la prima edizione critica dei testi teatrali dell’artista siciliano. All’incontro prederanno parte oltre allo stesso Isgrò, Francesca Corrao e Vincenzo Pirrotta.
L’Orestea segna idealmente l’inizio di una profonda germinazione di incontri culturali tra artisti, architetti, musicisti, poeti, contadini, artigiani, operai, donne e giovani che insieme rifondano la città di Gibellinanel segno dell’Arte e della Bellezza, all’indomani di un terremoto che ha cancellato 14 città nella Valle del Belìce. Nel 1983, per celebrare la rifondazione della città e segnare l’alba di un destino tutto da riscrivere, sulle rovine della distrutta Gibellina, novella Troia e immaginario Palazzo degli Atridi, Ludovico Corrao riproponeva la recita dell’Orestea nel ‘siciliano poetico’ ideato da Emilio Isgrò: un vigoroso messaggio di rinascita culturale per tutti i popoli minacciati dai sismi della storia e dai non meno potenti terremoti di civiltà operati dalla guerra.
Così racconta Emilio Isgrò:“se il terremoto aveva cancellato tutto,era da lì che dovevo partire, da quel mare di ruderi e vite spezzate. Venne così la mia prima decisioned’artista,caricadiconseguenzeancheperladrammaturgia:lascena dell’opera sarebbe stata la scena stessa del terremoto, concettuale e fisica insieme. In quello spazio si sarebbero mossi gli attori, le macchine, le comparse. Cosicché mutava la stessa prospettiva greca di Eschilo, con il classico, efebico messaggero che, tramutato in un grassoAmbasciatoredelleOmbre,sgusciavaricopertodipolveredauncumulo dirovine.Tutto era lì, insomma, non altrove: anche la possibilità di una scrittura che con il dialetto cancellasse la lingua e viceversa.”
Tutto questo avvenne per passione e per amore. E per circa quattro o cinque anni io fui lì, tra le macerie, a sperimentare la possibilità di stare con gli uomini veri piuttosto che con le maschere rappresentate da Pirandello nel suo immenso teatro.Lì, o comunque pensando a quel luogo, ho scritto quasi tutti i miei testi da palcoscenico, anche quelli che da quel luogo sono tematicamente distanti. In ogni caso, non mi ha mai abbandonato l’idea greca che l’arte possa servire anche a smuovere le ruote del mondo affondate nel fango.
Il fatto che oggi si torni a parlare di quella esperienza come di una cosa importante (persino più importante di quanto allora non apparisse) significa che il tempo ha lavorato bene e chiarito. Ma significa anche che quella esperienza, arrivata probabilmente in anticipo, può tornare oggi più utile di ieri: in quanto abbiamo più o meno capito tutti che la libertà dell’arte (dalla politica più politicante non meno che dal mercato più mercatante) è pur sempre un’utopia. Ma un’utopia da coltivare: perché coincide pur sempre con la speranza di un mondo anche economicamente più libero.”
“Emilio Isgrò è artista poliedrico e sfuggente tuttavia è nella sua parola, in quell’Agamennuni che sancisce la nascita di un luogo d’azione e di pensiero, d’arte e poesia, che mi è parso di averlo potuto incontrare incarnandone le rime le allitterazioni le assonanze, è in quell’essere e il non essere della parola di Isgrò, pensata per una scena di rovine per una terra violentata dalle scosse, in cui convergo oggi in un compendio, oserei dire in una poetica cancellatura, in cui la scena dell’opera è un corpo e la sua voce.Emilio Isgrò con i suoi versi dell’Agamennuni e con la sua lingua aspra e pungente ci dice chi siamo da dove veniamo, e ci ammonisce sul dove non dovremmo andare, esplora con le sue cancellature gli abissi dell’animo umano ce li mostra non mostrandoli, ci si immerge con la parola per riemergere con la sua originalissima verità.”