L’Istituto Comprensivo di Acquedolci, ieri ha accolto il libro di Pino Manzella “Peppino Impastato – La memoria difficile.
Nell’aula gremita di alunni, le parole dei testimoni e amici diretti di Peppino, rimbombavano come fossero una stretta al cuore. A presenziare l’evento Felicia Lo Cicero (scrittrice), affiancata da Pino Manzella (grafico del giornale l’Idea, e curatore del libro presentato), Carlo Bommarito (Presidente Ass. Compagni di Peppino Impastato), Caterina Blunda (Presidente ASADIN), Giuseppa Trifirò (Dirigente Scolastico Ist. Compr. Acquedolci).
Le parole dei testimoni diretti, dei compagni di Peppino, le testimonianze di costoro sono forti nonostante siano trascorsi 46 anni dalla sua morte. Felicia Lo Cicero inizia il suo discorso con le parole di mamma Felicia (la madre di Peppino Impastato). «Ragazzi dovete studiare, così si uccide la mafia». La conoscenza conduce alla giustizia perché combatte l’ignoranza. «Non sopravvive il più forte, sopravvive chi riesce ad organizzarsi, a creare il senso dell’unione, a non fomentare divisioni». Ascoltare gli uomini e le donne sedute a quel tavolo, ti riporta all’antico dolore dei siciliani onesti. Un libro scritto per dare voce alla realtà vissuta dai testimoni diretti della vicenda. Ed ecco che la memoria può essere rinvenuta in due modi diversi: la “memoria ricostruttiva” che è quella che viene rivisitata, rivista, che potrebbe cambiare «così come è accaduto per il film i 100 passi, di Marco Tullio Giordana, straordinaria testimonianza che però non è stata del tutto fedele alla realtà», e la “memoria riproduttiva” quella memoria che cerca di essere fedele il più possibile nel riprodurre fatti, azioni e sentimenti nel loro stato reale. Attraverso 39 testimonianze di compagni di gioco, dei compagni di lotta, degli amici del Circolo Musica e Cultura, nel testo di Pino Manzella rinveniamo la storia più vicina ad un eroe, che non è stato solitario, ma che era capace di accogliere intorno a sé la migliore gioventù e la migliore gente di Cinisi. «Peppino Impastato non era un giornalista, non era un conduttore radiofonico, era un militante politico assassinato anche dal partito che allora a Cinisi ricopriva il 60% dei votanti, la Democrazia Cristiana. Nato nel 1948 e morto lo stesso giorno di Aldo Moro 9 maggio del 1978, era figlio del ’68, di quell’anno dove le donne e la gioventù si ribellava ai bavagli e alle regole dell’ipocrisia. Quando muore lo zio di Peppino Impastato, lui aveva 15 anni da allora il suo destino fu come segnato».
Attraverso le parole dei relatori si comprende l’obiettivo di quel giovane ragazzo, quello di stare dalla parte dei deboli, dalla parte dei giusti, dalla parte della dignità degli uomini. Alla prima uscita del giornale “l’Idea” il prete lo butta fuori insieme alla rivista, l’articolo della prima pagina “Mafia: una valanga di merda” viene oggi ricordato come “Mafia: una montagna di merda” ma i termini cambiano il senso pur essendo simili, le montagne sono ferme, la valanga ti trascina. Tenere ascolto alle parole di questa gente significa comprendere il ruolo di una Sicilia fatta di uomini e donne che hanno dovuto subire da sempre le scelte dei prepotenti. «Se una piccola percentuale ha lottato per una Sicilia migliore, una grande percentuale ha sempre adottato l’atteggiamento omertoso che salva solo in apparenza». Anche la svolta verso il progresso detiene quel potere mafioso insito nel fare consueto, così l’esproprio dei terreni che divennero l’aereo porto di Punta Raisi, divenne motivo di migrazione «furono pagati una miseria, e chi con la terra aveva da vivere con quella miseria poteva solo emigrare». Allora ci si chiede perché in Sicilia la bellezza della costruzione di un aereo porto debba essere tacciata comunque dal malaffare, dalle ingiustizie verso gli ultimi? Sorge spontanea la domanda da parte di un’alunna «ma oggi la mafia che fine ha fatto?» «Si è trasformata» risponde Carlo Bommarito «sono imprenditori che investono negli impianti del fotovoltaico, nelle cliniche mediche, nei villaggi turistici di lusso, i loro soldi vengono investiti in borsa, non si chiamano più mafiosi. A controllare i loro movimenti possono solo i magistrati e le forze dell’ordine». Ed ecco che si apre il volto di una terra sempre risucchiata nella sua bellezza, dalle sue potenzialità, dai suoi fiori profumati vestiti dalle anime di chi è morto per questa terra. Tanti i nomi che girano intorno a decenni nefasti, una lunga catena con radici profonde come quelle di un albero dalle foglie velenose. Una terra che si vedeva scaricare materiale bellico a Punta Raisi, mentre a scendere dovrebbero essere solo i turisti, perché solo di bellezza era capace di poter vivere quest’isola.
Inizialmente alcuni dei compagni di Peppino, furono fermati e chiamati in caserma per essere interrogati, poi fu grazie al loro contributo, che Peppino poté ritrovare un minimo di giustizia. Il giorno che seguì la sua morte, la madre Felicia denuncia alla Procura della Repubblica «Mio figlio è stato ammazzato, voglio sapere chi è stato.» I pezzi del suo corpo sparsi oltre 100 metri, quelle pietre sporche di sangue trovate nella stalla grazie “ai compagni”. La ricostruzione dei fatti fa male come un pugno nello stomaco di un bambino, urla di orrore, piange di dolore atroce che spacca le membra.
Nella giornata di ieri, i ragazzi in silenzio, hanno ascoltato delle testimonianze agghiaccianti, che ancora oggi tolgono il fiato. A che serve allora la memoria, a cercare di non continuare a far morire l’onestà e la bellezza di una terra e della sua gente.