Teatro, cinema e arte si incontrano alle Orestiadi, nel segno di Mimmo Paladino, artista eclettico e poliedrico, che da sempre ha un legame fortissimo, storico, con le Orestiadi e che quest’anno ha donato l’immagine del Festival, dalla sua collezione dedicata a Pinocchio. Sabato 29 luglio (alle ore 21.00) verrà proiettato il suo nuovo film “LA DIVINA COMETA”, proprio ai piedi della sua Montagna di Sale che fu scena de La sposa di Messina nel 1990 e che oggi risiede stabilmente al Baglio Di Stefano. Precederà il film un saluto in video del regista.
Alle ore 19,30 si potrà assistere a “L’INFINITO ISTANTE”, un omaggio all’arte fotografica, al tramonto, letture da Roland Barthes, Italo Calvino e Leonardo Sciascia: una performance tra musica e parole con GINESTRA PALADINO e MARCO ZURZOLO (sax), evento speciale in occasione della nuova edizione di Gibellina Photo Road.
Alle donne è dedicato lo spettacolo “DI ME LA NOTTE SEMBRA SAPERE” con la regia di Enrico Stassi, che andrà in scena domenica 30 luglio. Cinque donne, che si raccontano con parola di donna, cinque personaggi, cinque storie venute fuori dalla penna di quattro autrici Dacia Maraini, Diana Marta de Paco Serrano, Alejandra Pizarnik, Maria Teresa Coraci, portate in scena dalle attrici Maria Teresa Coraci e Elena Pistillo.
Il film “LA DIVINA COMETA”, la cui sceneggiatura è firmata, oltre che da Mimmo Paladino, anche da Maurizio Braucci (ha ricevuto Orso d’argento come migliore sceneggiatura nel 2017 per La paranza dei bambini) è costellata da personaggi e da testi. Appaiono nel film, tra gli altri, Alessandro Haber, Peppe Servillo, Toni Servillo, Sergio Rubini, Nino D’Angelo, Elio De Capitani, Francesco De Gregori. Mentre i testi che accompagnano la storia spaziano da Dante Alighieri a Aldo Nove, da Enzo Moscato a Roberto Alaimo, da Filippo Arriva a Gian Ruggiero Manzoni,e tanti altri.
Racconta il viaggio di un attore e di una famiglia di senzatetto. Il loro viaggio non è solo la ricerca di una casa ma una messa in scena: l’attore prende le vesti di un Dante che nessuno accompagnerà nella sua discesa all’inferno, la famigliola vaga alla ricerca della casa promessagli. Di volta in volta, un numerologo prova a trovare un senso a tutta questa commedia, a raccontare il viaggio tra i gironi infernali e le grotte del presepe, tra l’arte popolare e quella di ricerca. Il conte Ugolino e Paolo e Francesca raccontano le loro pene, tra aneddoti della storia della fotografia e della pittura, tra simboli e parole, tra Pontormo e Glenn Gould. Dante, ammutolito, passa tra guerre, bestemmie e miserie, in un viaggio dentro il tempo e lo spazio della creatività e delle idee più eretiche.
Lo spettacolo “DI ME LA NOTTE SEMBRA SAPERE”, in programma domenica 30 luglio alle ore 21.00, con la regia di Enrico Stassi, mette in scena cinque donne, che si raccontano con parola di donna, dopo un prologo in versi di Alejandra Pizarnik, poetessa argentina vissuta tra Buenos Aires e Parigi e morta nel 1972 a soli trentasei anni. I versi della Pizarnik – da cui è tratto il titolo del lavoro teatrale – anticipano tutta la difficoltà del dirsi, l’inganno della parola, quella stessa che promette salvezza, che sembra tracciare il percorso di costruzione di una identità̀ nuova rispetto agli stereotipi di genere, ma che alla fine soccombe – almeno per Alejandra Pizarnik – al male di esistere (Perdo la ragione se parlo, perdo gli anni se taccio). Il racconto sulla scena si avvale di una pluralità di registri – il tragico, il comico, l’onirico – quella stessa varietà di aspetti e di umori che rende ragione della ricchezza e della complessità dell’universo femminile.
Si passa così dal delirio comico-grottesco di Rosa (uscita dalla penna della drammaturga spagnola Diana Marta de Paco Serrano), che racconta la sua tormentata vicenda d’amore con un uomo affetto da un grave disturbo; alla storia di Lucia Joyce (scritta da Maria Teresa Coraci), danzatrice e scrittrice, figlia di James Joyce e amante di chi allora ne era il segretario, Samuel Beckett, la cui vita fu contrassegnata da un lungo peregrinare in diverse cliniche psichiatriche d’Europa.
Compaiono a un tratto Clitennestra ed Elettra, nella versione immaginata da Dacia Maraini (I sogni di Clitennestra), un’operazione drammaturgica in cui entra prepotentemente in gioco tutta la sensibilità della scrittrice per le tematiche che da sempre connotano la sua produzione artistica, le donne, l’identità di genere, la diversità, l’interrogarsi del sé femminile, la contraddizione feroce che, in questa opera, si cristallizza in due polarità inconciliabili: Elettra, vestale dell’ordine patriarcale costituito, e Clitennestra, sovvertitrice di quell’ordine, che termina i suoi giorni in manicomio, unico luogo che possa accogliere e narcotizzare ogni anelito di alterità o di possibile messa in discussione dell’ordine dato.
Dall’abisso di questa disperazione insanabile si passa alla leggerezza ironica e amara di Dorina, descritta da Maria Teresa Coraci: Dora Maar, la fotografa, la poetessa e pittrice francese, una delle poche amanti di Picasso a non finire suicida. La stessa che Pablo Picasso non indugiava a umiliare, facendole abbandonare la fotografia in cui eccelleva. Quando, dopo dieci anni, venne lasciata da Picasso, Dora cadde in una profonda depressione che la costrinse a farsi ricoverare in una clinica psichiatrica, dove fu sottoposta a numerosi elettroshock e presa in cura dallo psicanalista dello stesso Picasso, Jacques Lacan.
Leggerezza e ironia non riescono invece a salvare Camille. Camille Claudel, l’allieva e amante del grande Auguste Rodin, scultrice di valore ella stessa, colei che per volere della madre venne internata in manicomio e che – sempre per volere della madre – vi rimase, anche quando i sanitari erano pronti a firmare le sue dimissioni per un deciso miglioramento delle condizioni di salute. In scena, verrà rappresentato l’insanabile delirio per quell’arte che avrebbe dovuto salvarla e che invece la condannerà all’assenza e all’oblio.