Inizia con Basilio Petruzza lo spazio che Eco di Sicilia dedica ai “Siciliani doc”. Una sorta di rubrica che intende presentare i numerosi siciliani che coltivano un talento; la nostra amata terra è ricca di uomini e donne talentuosi!
Basilio Petruzza, attualmente studia a Roma per conseguire la laurea magistrale al Dams. Nel 2014 si è laureato al Dams di Messina. Residente ad Acquedolci, conosciuto nell’intero comprensorio dei Nebrodi e non solo, nel 2012 ha pubblicato il suo primo romanzo “Frantumi”. Da poco, nella splendida cornice del Castello Gallego di Sant’Agata Militello, ha presentato il suo nuovo romanzo “La neve all’alba”.
Conosciamolo meglio!
Raccontaci qualcosa di te. Quando hai “sentito” la passione di scrivere?
Non c’è stato un momento esatto in cui io abbia sentito di voler scrivere. Ho iniziato che ero ancora bambino, non so esattamente perché lo facessi, so che mi piaceva. Inventavo storie, le scrivevo su quaderni a righe, ne riempivo due o tre per ogni romanzo. Il primo risale al 2002, avevo undici anni. L’importanza della scrittura, quanto fondamentale sia per me, l’ho capito quando ho scritto “Frantumi”, il mio primo romanzo. Lì ho capito che la mia non era soltanto una passione, ma un bisogno. È stato come attraversare a piedi scalzi la mia storia, sono inciampato sulle disarmonie meno evidenti, mi sono visto da punti di vista diversi, ho fatto la guerra con le mie paure, quindi ho smesso di eluderle, ho fatto pace con le mie fragilità, ho imparato a dare un nome ai miei piccoli dolori d’adolescente. Mi sono conosciuto. O, meglio ancora, ho capito l’importanza di conoscersi. Ho capito che l’unica felicità che esista nasce dalla piena conoscenza e consapevolezza di sé. Quando sai chi sei, sai anche in che direzione andare. E il risultato non è il traguardo, ma ogni passo fatto assecondando ognuno la propria personalità, il proprio carattere, la propria verità. Ecco, non sarei quello che sono se non scrivessi. Scrivere mi ha permesso di sapere quello che so di me.
Come nasce un libro?
Una storia nasce da un’idea, da un’intuizione, da una frase, da un’immagine, da una malinconia. Un libro, invece, nasce da un bisogno, da una mancanza da riempire, da un dolore da conoscere, definire e combattere. I miei libri, sia quelli già pubblicati che quelli che tengo per me, sono nati tutti da un malessere che intuivo d’avere ma che non sapevo ben definire, chiarirmi e vincere. Forse mi mancava il coraggio. Un libro contiene una storia; e una storia è una trama, quindi è fantasia, è talento. Ma non basta una buona trama, un libro è tante altre cose ancora: è lacrime, insoddisfazione, rabbia, frustrazione, dolore. Anche malinconia, sentimenti irrisolti, paure. Tutto questo fa un libro, il racconto che lo costituisce serve “soltanto” a trasformare le proprie sensazioni in una storia.
Hai un luogo dove preferisci scrivere?
Scrivo sempre a casa, sempre alla mia scrivania. Per me diventa come un lavoro: quando inizio, mi ritaglio almeno due ore al giorno da dedicare alla scrittura. E vado avanti così per quattro, cinque mesi. È un po’ come se andassi in ufficio a lavorare, chiudo il mondo fuori dalla mia stanza, stacco il cellulare e internet e mi dedico solo al mio libro.
Il tuo primo romanzo, “Frantumi”, di cosa parla?
“Frantumi” parla di un’adolescenza che deve imparare a diventare età adulta. Parla di quel momento in cui non sei più un ragazzino, ma non sei ancora nemmeno un uomo. Parla di tempi di mezzo, quei tempi complessi e indefiniti che ognuno vive a suo modo. La protagonista è Laura, una giovane studentessa che non sa prendere in mano la propria vita, le proprie scelte, i propri sentimenti. E lascia che siano gli altri a decidere per lei. Quando s’accorge degli errori che ha commesso, è troppo tardi. È la fotografia di quello che ero qualche anno fa, ero arrabbiato, impulsivo, non sapevo sperare. “Frantumi” è una storia senza speranza di ripresa, una storia a senso unico, che viaggia in direzione di un dolore che può soltanto lacerare, mai farsi maestro per la vita a venire. Questo libro è una delle tappe più importanti della mia vita, scriverlo è stato vitale per me. Mi ha insegnato tanto. Mi ha insegnato a diventare grande. Per questo ho scelto di tatuarlo sulla mia pelle, non per autocelebrarmi, ma per ricordarmi come ho smesso di essere adolescente e come sono diventato un uomo.
Cosa hai provato non appena l’hai visto “confezionato”?
Ho pianto. Ricordo il giorno che ho stretto tra le mani la prima copia, ho pianto e ho abbracciato mia madre. Ci siamo commossi insieme, perché in quel momento il mio sogno era diventato vero. Non dimenticherò mai quel momento.
Da poco è uscito il tuo secondo romanzo, “La neve all’alba”. Raccontacelo.
“La neve all’alba” è la mia faccia di oggi. Di solito, si diventa grandi e ci si inaridisce, si smette di sperare, si diventa disillusi, stanchi, imbruttiti. A me sta succedendo il contrario, sto imparando a sperare, a dare un nome ad ogni singolo dolore, così che possa diventare un’occasione reale di felicità concreta. Non voglio sprecare nulla che mi possa far star bene. Ogni malessere capito, affrontato e guarito è terreno fertile per una serenità piena e cosciente. E persino duratura, aggiungo. “La neve all’alba” affronta una storia ben più drammatica di “Frantumi”, ma ho deciso di porre l’accento sulla speranza, su quell’istante in cui s’impara a prendere in mano la propria vita per farne la propria occasione. Anzi, non l’ho deciso, ho soltanto assecondato me stesso. “La neve all’alba” racconta di Mauro, un ragazzino che subisce abusi sessuali e psicologici da parte di un prete. La vicenda si snoda nell’arco di parecchi anni, ho voluto raccontare il bambino che era e l’uomo che diventa. E, in mezzo, il suo vissuto, la rabbia, la frustrazione, l’avvilente domanda che l’accompagna da sempre: “è colpa mia?”. Non è un romanzo a tematica sociale, non parlo a nome di chi ha subito una violenza. È la vita di Mauro, la sua innocenza rubata, la sua frustrante posizione di bambino stuprato, di adolescente incompreso e di uomo compromesso. E poi c’è la speranza, che ha un costo. Quale sia, lascio che a scoprirlo sia chi lo leggerà.
Che consiglio daresti a chi vorrebbe iniziare a scrivere?
Nessuno, se non di farlo. Se scrivere è una necessità, non serve nessun consiglio. Serve ritagliarsi del tempo per assecondare la propria natura e scrivere.
C’è già “in cantiere” qualche altro progetto?
Quello che m’importa di più è continuare a far conoscere “La neve all’alba”, far sì che arrivi a più gente possibile. E nel frattempo sto lavorando ad un nuovo romanzo, molto diverso sia dal primo che dal secondo che ho pubblicato. Stavolta voglio raccontare la paura di essere se stessi, la meraviglia di non saper essere altro.
Concludiamo così: come ti immagini tra dieci anni?
Tra dieci anni avrò quasi trentacinque anni, e solo a dirlo mi si incespica la lingua. Non so immaginarmi. Posso dire come spero di essere. Spero di essere un uomo appagato, un uomo che non è mai sopravvissuto, ma che ha vissuto pienamente ogni cosa, ogni sentimento, ogni emozione, ogni malessere o turbamento. Così da poter scrivere ancora. Anzi, spero di avere ancora il bisogno che ho oggi di scrivere. Spero di non essere mai sceso a compromessi. Spero di vivere ancora a Roma, perché qui ho trovato il mio posto. Spero di essere un adulto che sa ancora piangere a viso scoperto. E spero di essere diventato papà. E di somigliare anche solo un po’ al mio, che è l’uomo migliore che io conosca.
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Alberto Visalli