Al MacS, museo d’arte contemporanea Sicilia di Catania, è visitabile fino al 30 novembre 2014, la mostra d’arte figurativa “Ad imaginem suam”.
“Il nostro – ha dichiarato Alberto Agazzani (Curatore d’arte MACS) –, è un invito a restituire all’immagine quella dignità che la nostra incapacità di interrogarci, di saper uscire dall’ovvio, ci ha tolto. E cominciamo a riscoprire questa arte che abbisogna di sguardi eccentrici per essere capita e, di conseguenza, amata. Sant’Agostino diceva: “ognuno di noi ama ciò che sa”. E, nel momento in cui noi seminiamo il nostro dubbio e vediamo le cose, quindi le apprendiamo da un punto di vista diverso, è inevitabile amarle. Chiediamoci a cosa serve l’arte. Non serve ad abbellire i nostri salotti, i nostri uffici, le nostre case.
L’arte ha uno scopo ben preciso che è quello di stimolarci, di metterci in contatto con un altrove che è dentro di noi prima che fuori. George Bernanos scrive che il compito di una candela è quello di illuminare, e a nessuno verrebbe mai in mente di accendere una lampada per illuminare un’altra candela. Il compito dell’arte è quello di illuminare, e a nessuno verrebbe in mente di accendere una candela per illuminare se stesso. L’arte deve illuminare rispetto ad un altrove, rispetto a un mistero, rispetto a un buio. Non deve illuminare l’artista, il critico di turno, il direttore di museo, il mercante d’arte, tanto meno deve arricchirlo. Se noi non restituiamo questa dignità all’arte il baratro è inevitabile. Perché se non siamo in grado di interrogarci davanti a un quadro non saremo in grado di interrogarci davanti a nessuno dei misteri che quotidianamente ci assillano”.
“In sei mesi – ha dichiarato Giuseppina Napoli (Direttore MACS) – abbiamo avuto una programmazione non indifferente e i risultati sono eccezionali perché anche in periodi terribili, drammatici, di crisi come quelli che stiamo vivendo abbiamo già registrato all’incirca quindicimila presenze. Un dato, quest’ultimo, abbastanza confortante che ci sprona ad andare avanti e a fare sempre meglio. Questa collettiva è caratterizzata da dodici segni, dodici diverse visioni dei fatti umani, raccontati dal linguaggio simbolico e misterioso ma sempre universale dell’arte figurata. Credo sia l’occasione preziosa per chi ne voglia conoscere aspetti, forse mai troppo indagati ed invece tanto importanti, se si vuole ritrovare il senso di un’arte quasi perduta, un’arte che ci fa sentire meno soli nella problematica storia dei nostri giorni. Meglio di qualsiasi spiegazione, a parlare saranno le immagini delle opere di questi grandi artisti. Grandi e coraggiosi”.
Dal catalogo “Ad Imaginem Suam” (NFC Edizioni), un stralcio da “Padre nostro che sei in terra” di Alberto Agazzani
“Chi o cosa ci impedisce di leggere nella grande donna distesa di Silvio Porzionatouna lettura up-to-date di una delle tante femmes fatales, da Maddalena e la moglie di Putifarre a Semiramide e Armida in poi? Lo stesso discorso è applicabile alle diversamente dipinte icone di Roberta Coni e Nicola Pucci, o a quella “fotografica” ma altrettanto impossibile di Marco Bolognesi, capaci tutte di superare l’individualismo del ritratto per donare ai volti rappresentati un’universalità in grado di evocare un’intera, varia umanità prima ancora che il carattere di un singolo individuo. Non potrebbero essere queste immagini contemporanee di sante o eroine, imperatrici o principesse del nostro passato? O addirittura del nostro tempo, nuove sante, eroine, regine o principesse fra le centinaia che ci assillano quotidianamente? Lo stesso Giuseppe Bombaci ci restituisce, in una chiave totalmente visionaria, onirica, irreale, l’immagine quanto mai odierna di una principessa spagnola di chiara ascendenza velazquiana. Un tempo senza tempo, una pittura di fascinosa inafferrabilità, un luogo senza confini: anzi una notte eterna, senza fondo ed animata da improbabili lucciole. E Dino Cunsolo col suo inedito, sontuoso, meraviglioso (in senso letterale del termine) “San Sebastiano”, leggibile come tale solo dal diretto rimando contenuto nel titolo, oltre la sua abbacinante bellezza e ricchezza compositiva, non può essere inteso come la rappresentazione scabrosissima al limite dell’indicibile di quella terribile, mostruosa piaga chiamata pedofilia? Alessandro Reggioli, fedelissimo alla propria ricerca espressiva incentrata sul cuore, espone una versione “barocca” (siciliana verrebbe da dire) delle sue sempre stupefacenti e preziose armature. Non l’uomo nella sua complessa e variamente simbolica interezza, dunque, ma il “semplice” cuore, una corazza per il cuore, più precisamente, ossia il centro delle nostre emozioni e delle nostre sofferenze. I personaggi solitari di Peter Demetz si muovono in spazi privati di qualunque connotazione geografica o temporale. Spazi mentali verrebbe da pensare, quindi metafisici nel senso più ideale del termine. Viaggi in diverse ma egualmente silenziose solitudini, come quelle di santi e martiri eremiti, anacoreti o viaggiatori. Luciano Vadalà non si limita a dipingere l’uomo, ma la sua malata carne pensante. Nonostante egli si concentri quasi ossessivamente sul tormento della vita, egli non rinuncia mai, in nessun momento ad esaltare il seducente mistero del corpo e la sua bellezza. Anche i suoi personaggi sono nuovi martiri, ammalati ed ammorbati da solitudini e melanconie senza requie e senza nome. Eppure vivi, reali, pulsanti di sangue e carni tormentate ma pur sempre vive e perciò piene di speranza. Il corpo ad immagine e somiglianza di quello divino non è stato inteso solo in chiave più o meno mimetica, anzi (lo abbiamo visto nel caso di Bombaci). Ma l’espressione si complica e arricchisce nelle diverse interpretazioni, sottese fra teatro, visione e sogno, che ne danno Giuseppe Guindani e Nunzio Paci. In entrambi i casi il corpo induce ed introduce un mistero, in Guindani introdotto dal rapporto con la natura delle origini e la sua bellezza, in Paci dall’insondabilità di una macchina vivente perfetta”.