Pubblichiamo, qui di seguito, un contributo a firma di Giovanni Occhipinti, figlio degli iblei, poeta, narratore e critico letterario tra i più apprezzati del secondo Novecento, che con le sue opere segna la sua già estesa presenza nel variegato panorama della letteratura italiana contemporanea. Stiamo parlando di Dario Pepe
Dario Pepe non è soltanto poeta, è anche un professore in Lettere Classiche e questo ci fa ritenere opportuno conoscere, nel corso della nostra chiacchierata, il suo pensiero sulla poesia che ci propone, uscendo allo scoperto con un titolo enfatico: Non plus ultra (Bastogi, 2012). Perché? E poi: c’è un nesso tra le parole di Eluard, in esergo al libro, e i versi del nostro autore? E ancora: vorrebbe, egli, rivelarci la natura del “graffio” (“[….] lo stupore/nel ritrovarmi questo graffio tra le dita”) e se c’è consequenzialità con lo stupore: “Ebbi soltanto un attimo per intascare lo stupore/ nel ritrovarmi questo graffio tra le dita”.
In ultimo: se invitassi il poeta a sostituire il linguaggio surrealistico e figurato della metafora “intascare lo stupore” in rapporto a “graffio tra le dita”, con un’espressione letterale o oggettiva propria della referenzialità della comunicazione, come se la caverebbe?
Mi sono soffermato su questi versi iniziali, che aprono la raccolta di Dario, perché si noti che la sua poesia, tutt’altro che acerba, e anzi di buone promesse, non è sguarnita dei segni semantici della ricerca linguistica e esistenziale, dunque anche affettiva, essendo legata al sentimento del rapporto con l’ “altro”: mi riferisco principalmente all’intesa di coppia (probabilmente, qualche volta, la presenza introdotta dal “tu”).
Un’opera prima di venti liriche, va oltre la dignità e la promessa dell’opera prima e ci fa ben sperare sull’affermazione del poeta, il quale dalla sua ha già la costanza e la curiosità per il verso. Un verso, che in questa raccolta si snoda in un dialogo insistito e malinconico verso un “tu” che sembra allontanarsi, perdersi sullo sfondo della vita e sparire, come qui, in Disperatamente celeste, dove -scrive il poeta- “trasporto abbandono paura/ si invadono reciprocamente/ ed è condizione disperatamente celeste”.
Bello l’ossimoro! Una disperazione celeste ovvero la percezione di uno stato d’animo inconsueto, turbato ed esaltato e sorpreso, ma anche la percezione di un colore -il celeste-, che nell’iconografia religiosa della tradizione cristiana sta a indicare il luogo e lo status della beatitudine dei Santi: dunque, tra lo stato di beatitudine e quello di disperazione (la condizione ossimorica cui si accennava), il poeta vive il sentimento inquieto e inquietante del paradosso dell’esistenza nel quale tutto può essere “disperatamente celeste”. Basta questo discorso per mettere in luce la vena sapienziale che irrora i versi di Dario Pepe? Dovremmo affidare ad altre pagine ancora le nostre rapide osservazioni.
Tanta giovane poesia odierna, alla ricerca – ahimè – di se stessa, stenterebbe a creare effetti di gradevoli suggestioni, come invece troviamo in Dario Pepe: sorvoliamo, per motivi di spazio e altro, sulla querelle se il Novecento sia stato o no il secolo della grande poesia e se l’attuale terzo millennio non lasci molto sperare sulla bontà della sua musa e soffermiamoci, per un consiglio al giovane poeta, sulla necessità, oggi, di scandagliare la profondità del discorso poetico lungo e attraverso la strada di volta in volta tracciata dal verso. Ogni poeta che voglia meritare questa definizione deve esplorare, col pensiero, il mondo: quello fisico e il proprio. Deve sentirne il dovere e avvertirne la necessità. Ricercarne la solitudine, viverla intensamente nelle letture e nella ricerca poetica, e non soltanto nell’ambito della poesia italiana. In era globale si ha il dovere di accostarsi alla poesia in senso planetario ovvero alle voci diverse e plurali della terra, ma evitando la contaminazione degli imprestiti da tanta corrente quando non dozzinale, poesia che persevera nell’inseguire se stessa, sia pure nel rumore stonato di un bugno vuoto. Bisogna ricercare la parte migliore di noi ed esprimerla con la parola più idonea, toccante e vibrante, per suggestione e profondità di pensiero e di significato.
Alcuni poeti, particolarmente al Nord, fanno gioco di squadra, ricercando l’affermazione nel vocio balbettante della moltitudine anonima e disdegnando i colori e le profondità della solitudine che pensa, osserva, medita, soffre e finalmente si esprime, crea. Essere critici della propria poesia deve essere l’impegno imprescindibile di ogni poeta, che deve chiudere le orecchie al canto ammaliante della propria vanità e al falso fascino del particulare; e invece aprirle quando e là dove si levi il canto-lamento o il canto-indignazione per l’esistenza travagliata dell’uomo. Conta scoprire, infatti, i grandi interrogativi dell’esistenza, al di là del bluff astuto della parola tecnicamente e freddamente elaborata, ma per esprimere l’insignificanza soltanto della quotidianità. Sono certo che Dario, al quale dedico queste parole, se ne ricorderà nel momento di inventarne altre, per significare il senso e le profondità della vita, nella quale tutti ci immergiamo e/o qualche volta ci smarriamo.
Giovanni Occhipinti